Come a Pentecoste, questo Conclave è un messaggio anche per le parrocchie
Gerolamo Fazzini - da www.AVVENIRE.IT - martedì 6 maggio 2025
La provenienza dei cardinali da 71 Paesi diversi sembra riecheggiare il passo degli Atti degli Apostoli. Le comunità cristiane sono di fronte a un segnale profetico da cogliere
«Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia… e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». Mai, come nel conclave che sta per aprirsi, i cardinali elettori (133, un record) potranno, in cuor loro, provare qualcosa di simile a quanto accaduto a Pentecoste, così come leggiamo negli Atti degli Apostoli.
Mai è accaduto, in precedenza, che i cardinali chiamati a eleggere il nuovo Papa venissero da 71 Paesi diversi. Tutti i continenti sono rappresentati, in un modo che non s’era mai visto prima: 17 nazioni dell’Africa, 15 dell’America, 17 dell’Asia, 18 dell’Europa e 4 dell’Oceania. Sarà, insomma, il conclave più “colorato” di sempre. Nel quale, per la prima volta, figurano porpore provenienti da 15 Stati che mai avevano avuto un rappresentante nell’assise che elegge il pontefice. Molti di questi Stati, in termini di geopolitica, contano come il due di picche: Haiti, Capo Verde, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Papua Nuova Guinea, Timor Est… E tuttavia Papa Francesco, creando cardinali alcuni presuli provenienti da quelle terre, ha voluto una volta di più far intendere che i criteri della Chiesa non sono gli stessi della politica, che l’importanza di un popolo, per un cattolico, non si misura solo dal Pil del suo Paese, dalla potenza del suo esercito o dalle sue capacità tecnologiche. Il Pontefice che ha dato forma al collegio cardinalizio più cattolico della storia della Chiesa è lo stesso che ha inaugurato nel 2015 il Giubileo della misericordia a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, lo stesso che ha visitato Papua Nuova Guinea e Timor Est nel 2024, nel corso del più lungo viaggio del suo pontificato. Lo stesso, infine, che nel 2022 aveva assegnato la porpora a Giorgio Marengo, missionario della Consolata, rendendo così sede cardinalizia la sperduta Ulan Bator, capitale della Mongolia: un Paese dove i cattolici sono circa 1.500 su poco più di tre milioni di abitanti. Il fatto che il collegio cardinalizio sia così universale ha comportato che i membri si prendessero un po’ di tempo, prima dell’apertura del conclave, per conoscersi meglio. Ma restiamo sul dato di sostanza: una Chiesa più universale è più cattolica, quindi più autentica, come ha sottolineato su queste colonne l’arcivescovo di Bangui, cardinale Dieudonné Nzapalainga: «La Parola di Dio deve raggiungere tutte le culture, tutti i continenti, tutte le genti se vogliamo restare fedeli al mandato del Signore».
Che implicazioni pastorali può avere tutto ciò? Il “Conclave più colorato che mai” non è una mera curiosità statistica, ma interpella tutti i fedeli: è un segno dei tempi davanti al quale non possiamo restare indifferenti. Il cattolicesimo è, già da tempo, multi-culturale: basterebbe, a confermarlo, un giro nei seminari degli istituti missionari, dove gli europei sono pressoché spariti e, al contrario, abbondano indiani, filippini, indonesiani, congolesi, brasiliani… E i battezzati, dicono le statistiche, aumentano in Paesi come Nigeria e Repubblica Democratica del Congo. Ancora. Come ha messo in luce padre Gianni Criveller su AsiaNews, per la prima volta in conclave siedono alcuni cardinali asiatici effettivamente “papabili”. Non è nello stile di questo giornale indugiare sui singoli nomi, tuttavia anche questo è un segno dei tempi prezioso, da rilevare: a salire alla ribalta è quello che le statistiche classificano come il continente meno cattolico del mondo (che, però, a ben vedere, è la terra di provenienza di Gesù).
Alla luce di queste provocazioni, sarebbe interessante se, anche nelle nostre parrocchie, i nuovi scenari ci portassero a cambiare sguardo sulla realtà, insegnandoci a considerare la pluralità non come banale esito del “melting pot”, ma come dono, ricchezza, opportunità. La domanda è: siamo aperti a queste novità della storia? Oppure proviamo forse la nostalgia dei “bei tempi andati”, quando i Papi venivano da Sotto il Monte e Concesio? O ancora: si insinua anche dentro di noi lo sconcerto di chi lamenta l’assenza dei cardinali di Milano, Venezia, Parigi in conclave? Se davvero vogliamo essere aperti al soffio dello Spirito, come le vicende di questi giorni ci spronano a fare, domandiamoci: quanto le nostre parrocchie stanno diventando “cattoliche”? Che ruolo hanno i “nuovi italiani”, i ragazzi e le ragazze di seconda generazione nelle nostre comunità? La risposta a questi interrogativi dirà se la qualità della nostra vita ecclesiale è all’altezza delle sfide del tempo che siamo chiamati a vivere.
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