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giu 06

Referendum sul lavoro: i 4 quesiti, i pro e contro, cosa c’è da sapere

A cura di Francesco Riccardi lunedì 2 giugno 2025

Le tutele in caso di licenziamento (compreso il reintegro), il nodo risarcimenti e infortuni, il ricorso ai contratti a termine: ecco la posta in gioco nella consultazione promossa dalla Cgil

Domenica 8 giugno dalle 7 alle 23 e lunedì 9 giugno dalle 7 alle 15 si vota per cinque referendum. I primi quattro riguardano materie di lavoro e sono stati promossi dalla Cgil e altri soggetti che hanno raccolto oltre 4 milioni di firme. Il quinto è sulla cittadinanza. Perché l’esito del referendum sia valido occorre comunque che esprimano il loro voto almeno il 50% più 1 degli aventi diritto. Ecco una guida sulle consultazioni legate ai temi del lavoro, scheda per scheda.

Scheda 1 (verde): licenziamenti, il reintegro nel proprio posto? Solo in un caso. Perché non si torna all’articolo 18

Il quesito sul “Contratto di lavoro a tutele crescenti - Disciplina dei licenziamenti illegittimi” (n. 1 schede verde) interviene sul trattamento che il giudice può decretare dopo aver stabilito che il lavoratore è stato licenziato in maniera non corretta nelle aziende oltre i 15 dipendenti. L’obiettivo della Cgil che l’ha proposto è quello di ripristinare il reintegro del dipendente licenziato in maniera illegittima nel suo posto di lavoro, così come prevedeva originariamente il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970. In realtà, la questione è più complessa e ha a che fare non solo con il Jobs Act o meglio il decreto 23 del 2015 sulle “Tutele crescenti” di cui si chiede l’abrogazione, ma anche con le sentenze della Corte Costituzionale che hanno cambiato di molto la riforma approvata dal Governo Renzi. E soprattutto con la precedente normativa - la riforma Fornero varata nel 2012 dal Governo Monti - che aveva già modificato quanto previsto dallo Statuto dei lavoratori e ristretto le possibilità della reintegra (la cosiddetta tutela reale) nel posto di lavoro. Per comprendere meglio la posta in gioco, occorrono allora alcune precisazioni preliminari. Anzitutto i contratti a Tutele crescenti su cui interviene il quesito referendario si applicano solo ai rapporti di lavoro costituiti dal 7 marzo 2015 in poi. Per tutti gli altri rapporti si applica invece la legge Fornero. Nel caso dei licenziamenti illegittimi perché considerati nulli o discriminatori (motivati dal credo religioso o per l’appartenenza a un sindacato o per l’orientamento sessuale, l’età ecc.) è sempre previsto il reintegro nel posto di lavoro. Negli altri casi in cui invece il licenziamento sia dichiarato “illegittimo”, oggi la normativa, così come “corretta” dalla Consulta, prevede che il giudice possa stabilire solo un risarcimento da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità (oltre sempre a stipendi e contributi non pagati nel periodo tra la fine della prestazione lavorativa e la sentenza).

Che cosa succede in caso di vittoria dei sì (e quorum valido)
Se il licenziamento individuale fosse stato intimato per un motivo ritenuto dal giudice insufficiente, si tornerebbe a un indennizzo di entità compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità così come previsto appunto dalla legge Fornero successiva allo Statuto dei lavoratori ma antecedente al Jobs Act. Nel caso invece di licenziamenti collettivi (almeno 5 dipendenti) in cui la scelta dei lavoratori sia stata indebita a giudizio della magistratura, il dipendente sarebbe reintegrato nel posto di lavoro.

I pro e i contro del quesito
Per i lavoratori dipendenti, assunti dopo il 2015, sarebbe ampliata la possibilità di ritornare al proprio posto di lavoro. Ed eventualmente a concordare una transazione monetaria più alta da una posizione di maggior vantaggio. Questo perché molti lavoratori, per il logorarsi dei rapporti impresa-dipendente, alla fine preferiscono comunque il risarcimento e l’uscita dall’azienda.
Secondo i promotori del referendum l’abolizione del contratto a Tutele crescenti rafforzerebbe in generale la condizione dei dipendenti, che risulterebbero meno “ricattabili”, ad esempio in materia di sicurezza. E renderebbe più omogeneo il trattamento di tutti i lavoratori dipendenti (oggi 3,5 milioni su 20 milioni sono a Tutele crescenti). Per contro, il ritorno all’applicazione della legge Fornero abbasserebbe a 24 mensilità il massimale nel caso di licenziamenti individuali senza una motivazione sufficiente, mentre il minimo verrebbe innalzato da 6 a 12 mensilità. Inoltre, non sarebbero più tutelati i dipendenti delle organizzazioni di tendenza (sindacati, organizzazioni religiose, ecc.), oggi ricompresi nel regime delle Tutele crescenti. È possibile, infine, che il maggiore irrigidimento della normativa possa scoraggiare le assunzioni, ma non è provata una correlazione diretta tra i due fattori.

Scheda 2 (arancione): risarcimenti senza limiti nelle piccole imprese. Maggiori tutele agli operai, meno certezze per le aziende

Il quesito sulle “Piccole imprese - Licenziamenti e relativa indennità: abrogazione parziale” (n. 2 scheda arancione) riguarda appunto le aziende che hanno meno di 16 dipendenti. In caso di licenziamento considerato illegittimo, in base questa volta alle leggi 604 del 1966 e la 108 del 1990, è previsto sempre e solo il risarcimento monetario e non la reintegra nel posto di lavoro (la cosiddetta tutela attenuata). La tutela reale, cioè la reintegra nel posto di lavoro scatta invece sempre (e solo) se la risoluzione del rapporto avviene per motivi discriminatori (a causa ad esempio del credo religioso o dell’appartenenza a un’organizzazione sindacale o per l’orientamento sessuale, l’età eccetera). Il referendum in questo caso interviene per eliminare il tetto massimo del risarcimento, fissato attualmente a 6 mensilità di stipendio, non cambia la natura della tutela.

Che cosa succede in caso di vittoria dei sì (e quorum valido)
Sarebbe il giudice a stabilire la misura del risarcimento senza un massimale preciso, potenzialmente molto più alto delle 6 mensilità oggi previste. Il magistrato per stabilire l’indennizzo potrebbe tener conto di diversi parametri come l’anzianità aziendale, i carichi familiari, l’età, il fatturato aziendale.

I pro e i contro del quesito
Il vantaggio per i lavoratori delle piccole imprese sarebbe quello di avere una tutela risarcitoria più consistente che, in questo caso, sarebbe di volta in volta fissato dal giudice presso cui viene intentata la causa di lavoro. Un potenziale problema è che, eliminato il limite massimo, il giudice potrebbe stabilire un indennizzo molto elevato, persino più alto di quello da 24 o 36 mensilità previsto per i dipendenti delle grandi aziende, un onere molto pesante per piccole realtà produttive. E questo rischio, senza un limite certo ai risarcimenti, potrebbe scoraggiare le piccole imprese dal fare assunzioni.

Scheda 3 (grigia): contratti a termine sempre con la causale. Meno precarietà (oppure meno occasioni?)

Il referendum sull’”Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi” (n. 3 scheda grigia) riguarda i contratti a termine e la causale per accenderli. Quando la durata del rapporto di lavoro è pari o inferiore ai dodici mesi, i proponenti vorrebbero fosse imposto l’obbligo ai datori di lavoro di indicare nel contratto il motivo - la cosiddetta causale appunto - che oggi non è richiesta. Il quesito - che interviene sul decreto 81 del 2015, una parte del Jobs act - mira a limitare il ricorso ai contratti a termine rispetto alle assunzioni a tempo indeterminato.

Che cosa succede se vincono i sì(e quorum valido)
Per assumere un lavoratore con un contratto a termine andrà indicata una motivazione tra quelle valide secondo la legge e i contratti collettivi nazionali per i rapporti a termine.

I pro e i contro del quesito
Il vantaggio principale, secondo il comitato promotore, sarebbe quello di limitare il ricorso ai contratti a termine solo a quelli sostenuti da solide motivazioni previste dai contratti, senza inflazionarne l’accensione. E dunque intervenire così su quella che viene considerata una forma di precarietà del lavoro e di “debolezza” della posizione del lavoratore. Per contro, l’irrigidimento delle condizioni per l’accensione dei contratti a termine potrebbe avere un effetto negativo sulle assunzioni, considerando che il primo ingresso strutturato nelle imprese dei giovani passa ormai quasi sempre per uno o più contratti a termine e che le imprese possono creare maggiore occupazione se più “libere” di assumere personale a tempo per esigenze particolari, senza doverle “motivare” rigidamente. È possibile, inoltre, che aumenti il contenzioso giudiziario a riguardo.

Scheda 4 (viola): infortuni, i committenti sempre corresponsabili. Spinta alla sicurezza o un onere eccessivo?

Il quesito sull”Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici” (n. 4 scheda viola) riguarda l’abrogazione di un comma del decreto 81 del 2008 varie volte modificato fino al testo della legge 215 del 2021. In generale è sempre prevista la corresponsabilità solidale del committente e dell’appaltatore oltre che per il pagamento degli stipendi anche per il risarcimento dei danni da infortuni se non coperti dall’Inail. Oggi è però prevista un’eccezione che riguarda i «danni conseguenti ai rischi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici». Per capirci, forse è utile un esempio: se oggi una società che si occupa di vendite di scarpe procedesse alla ristrutturazione di un suo negozio, appaltando il lavoro a un’impresa edile, non sarebbe corresponsabile in solido dei danni da risarcire a un muratore che si ferisse usando il piccone. Questo perché il negoziante di scarpe fa un altro mestiere rispetto a un’impresa edile. I proponenti vorrebbero che la corresponsabilità ci fosse in qualsiasi caso.

Che cosa succede se vincono i sì(e quorum valido)
La corresponsabilità solidale del committente si applicherebbe sempre e comunque, senza eccezioni.

I pro e i contro del quesito
Il vantaggio sarebbe certamente quello di spingere qualsiasi azienda committente a una maggiore vigilanza sulle attività e le condizioni dei lavoratori delle imprese appaltatrici. Verrebbe scoraggiato il ricorso a imprese con lavoratori in “nero” o poco professionali. Per contro, verrebbe richiesta ai committenti una “competenza” che non possono avere nella valutazione del lavoro delle imprese a cui appaltano un’opera. E ciò potrebbe risultare, oltre che eccessivo, economicamente svantaggioso, tanto da scoraggiare il ricorso ad alcune attività in subappalto.

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Cittadinanza, la guida per capire le ragioni del “sì” e quelle del “no”

Ilaria Beretta  - da www.avvenire.it - mercoledì 4 giugno 2025

Con la scheda numero 5, di colore giallo, si chiederà agli elettori se si è d’accordo oppure no con il dimezzamento dei tempi di residenza necessari per la richiesta di naturalizzazione

Domenica 8 giugno dalle 7 alle 23 e lunedì 9 giugno dalle 7 alle 15 si vota per cinque referendum. I primi quattro riguardano materie di lavoro e sono stati promossi dalla Cgil e da altri soggetti, il quinto è sulla cittadinanza. Si tratta di un referendum abrogativo di iniziativa popolare per il quale 630mila cittadini hanno firmato nelle piazze e sulle piattaforme digitali affinché la legge venga modificata e uno straniero possa chiedere la cittadinanza dopo 5 anni di residenza nel nostro Paese e non dopo 10 anni, come succede adesso.

Il quesito

Il quesito “Cittadinanza italiana: dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione di cittadinanza” è contenuto nella scheda numero 5, di colore giallo.
Il quesito chiede agli elettori di esprimersi sull’abrogazione di due punti dell’articolo 9 della legge n. 91 del 1992 che regola la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri extracomunitari e fissa a dieci gli anni di residenza legale necessari per avanzare la richiesta. Se si è d’accordo con il dimezzamento del requisito di residenza, bisogna votare Sì. Se non si è d’accordo, va barrata la casella del No. Perché l’esito del referendum sia valido occorre che si raggiunga il quorum, ovvero che esprima il suo voto almeno la metà degli aventi diritto di voto + 1.

Il quadro normativo oggi

La legge sulla cittadinanza risale al 1992, ma in realtà è molto più antica e affonda le sue radici nell’anno 1919, in un momento storico in cui l’Italia si percepiva come Paese di emigrazione più che di immigrazione. Si basa, perciò, sullo ius sanguinis: acquista la cittadinanza italiana di diritto e alla nascita chi ha almeno un genitore italiano. Lo ius soli, ovvero il diritto alla cittadinanza per il solo fatto di essere nati in un territorio, è previsto solo in alcuni casi: chi è nato in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza italiana quando compie 18 anni. Chi invece non è nato nel nostro Paese può chiedere la cittadinanza per concessione attraverso il matrimonio con un cittadino italiano o la naturalizzazione per residenza, dopo quattro anni per i cittadini di Paesi dell’Unione europea e dopo dieci anni per gli stranieri extra Ue. E lo ius scholae? Si riferisce alla possibilità di ottenere la cittadinanza per chi ha completato un ciclo di studi di almeno 5 anni. Ma attualmente in Italia è soltanto una proposta in discussione.

Cosa succede con la vittoria del sì (e quorum valido)

Il referendum abrogativo in programma l’8 e 9 giugno si concentra proprio sulla naturalizzazione per residenza e propone di dimezzare da dieci a cinque anni il periodo richiesto agli stranieri extracomunitari maggiorenni per ottenere la cittadinanza italiana. Per i cittadini Ue, dunque, rimarrebbe l’attuale requisito dei 4 anni di residenza. Rimarrebbe immutata anche la procedura di richiesta e ottenimento della cittadinanza, che oggi dura circa tre anni. Secondo le ultime stime del Centro studi e ricerche Idos, i potenziali beneficiari della riforma sarebbero 1 milione e 420mila cittadini non comunitari, pari a oltre 1 ogni 4 stranieri regolarmente residenti in Italia. Tra loro, gli adulti sarebbero 1 milione e 136mila e i minori 284mila.

Pro e contro del “sì” e del “no”

Votare “sì” faciliterebbe la vita a molti stranieri che vivono stabilmente in Italia e ai loro figli minori nati in Italia, molti dei quali riuscirebbero ad ereditare la cittadinanza italiana dai genitori invece di dover aspettare di farne richiesta al compimento dei 18 anni. Concretamente la riforma consentirebbe ai ragazzi di partecipare a gite e stage all’estero, di rappresentare l’Italia nello sport, di candidarsi a cariche pubbliche e naturalmente di votare. La cittadinanza eliminerebbe anche tante piccole discriminazioni: oggi per gli stranieri titolari di permesso di soggiorno è più facile incorrere in controlli e più difficile affittare una casa e trovare un lavoro stabile visto che la situazione di precarietà spinge ad accettare condizioni di lavoro più precarie e di sicurezza inferiori.
Il dimezzamento dei tempi - senza toccare gli altri criteri, ovvero il reddito, la conoscenza della lingua e il casellario giudiziario pulito - avvicinerebbe l’Italia agli altri Paesi europei. Non si tratterebbe di una novità assoluta visto che ripristinerebbe le regole in vigore prima del 1992, che appunto richiedevano agli extracomunitari soli 5 anni di residenza. Per i promotori si tratta anche di un atto di giustizia nei confronti di milioni di persone che studiano, lavorano e pagano le tasse, senza però avere gli stessi diritti di cittadini.

Dall’altro lato, il fronte del “no” sostiene che la legge attuale sia già bilanciata, soprattutto in ragione del fatto che l’Italia rilascia un alto numero di cittadinanze (circa 200mila nel 2023) rispetto ad altri Paesi. È bene sapere che questo numero si deve da un lato alle richieste di naturalizzazione di lontani discendenti di emigranti italiani (la norma è stata recentemente rivista) e dall’altro al gran numero di persone immigrate nei decenni scorsi e arrivate solo ora alla possibilità di presentare le domande. Alcuni poi voteranno contro la modifica perché credono che il referendum non sia la sede giusta per discutere dell’argomento, che andrebbe invece affrontato in Parlamento; mentre per altri rendere più facile ottenere la cittadinanza indebolirebbe la spinta degli stranieri ad integrarsi dal punto di vista culturale e sociale.

La normativa europea

Negli altri grandi Paesi europei, generalmente la naturalizzazione per residenza richiede tempi più brevi dei nostri. In Francia serve aver vissuto per cinque anni sul territorio senza interruzioni, avere un impiego e superare un esame di lingua e uno di storia francese. Il percorso si può interrompere in ogni momento in caso di condanna per reati di terrorismo o con una pena di almeno sei mesi di carcere. Anche in Germania dal 2024 per diventare cittadini servono cinque anni di soggiorno nel paese, un impiego o un reddito stabile e la conoscenza della lingua. In Spagna sono necessari dieci anni di residenza, che però si riducono ad appena due per le persone nate nei paesi dell’America Latina in cui si parla spagnolo.

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La nuova legge sulla cittadinanza è una riforma a metà: completiamola

Gianpiero Dalla Zuanna - da www.avvenire.it - martedì 3 giugno 2025

A seguito di vari interventi legislativi e delle imponenti emigrazioni susseguitisi a partire dall’Unità d’Italia, le persone con cittadinanza italiana si sono moltiplicate a dismisura, grazie a un’interpretazione estensiva del principio dello ius sanguinis (diritto di sangue). Fino alla mezzanotte (ora di Roma…) del 27 marzo 2025, chiunque poteva dimostrare di avere un antenato emigrato dall’Italia dopo l’Unità, per legge era cittadino italiano. Per vedersi riconosciuto questo diritto, poteva far domanda all’Ufficio Anagrafe del Comune di provenienza del suo antenato, al Consolato italiano nel suo stato di residenza, o alla Corte d’Appello della regione di provenienza del suo antenato. Di conseguenza, per la legge, fino al 27 marzo del 2025 i cittadini italiani “potenziali” erano un numero incalcolabile, probabilmente centinaia di milioni, ossia tutti i discendenti dei più di venti milioni di emigranti che hanno lasciato l’Italia dal 1861 a oggi, restando poi stabilmente all’estero.

Il Parlamento italiano ha convertito in legge un decreto del Governo che - a partire dalle domande presentate dopo il 27 marzo 2025 - prevede che il diritto di cittadinanza si trasmetta solo per due generazioni, con una possibile estensione alla terza solo per figli minori. Questo significa che sarà considerato cittadino italiano alla nascita solo chi ha almeno un genitore o al massimo un nonno italiano. Lo ius sanguinis oltre la seconda generazione non sarà più possibile, se non in casi specifici e ristretti, definiti dalla legge.

Questa legge potrebbe apparire come una drastica riduzione di diritti: di fatto, milioni di persone, in tutto il mondo, da un giorno all’altro, sono state private della cittadinanza italiana. Tuttavia, la questione va rovesciata: era lo ius sanguinis precedentemente in vigore ad essere irragionevole, mentre la nuova normativa è molto più vicina al significato autentico che dovrebbe essere attribuito alla cittadinanza. La realtà dei fatti e l’analisi socio-demografica mostrano che quando una emigrazione si consolida, i legami con il paese di origine, rapidamente, si indeboliscono. Come sta accadendo oggi in Italia, i figli degli immigrati si identificano rapidamente con il paese ospite. I nipoti degli immigrati quasi sempre non parlano nemmeno la lingua del paese da cui provengono i loro nonni, e sono del tutto simili - per stile di vita, mentalità, gusti… - ai loro coetanei autoctoni. Se ammettiamo che la cittadinanza dovrebbe coincidere con l’appartenenza stabile e attiva a una comunità, la nuova legge sembra quindi aver posto un limite ragionevole.

Un’ulteriore questione si pone per i paesi democratici, inclusa l’Italia, dove “la sovranità appartiene al popolo”. È irragionevole dare diritto di voto (attivo e passivo) a persone che con l’Italia non hanno nulla a che fare: già oggi gli iscritti all’Anagrafe Italiana Residenti Estero (Aire) sono 6,5 milioni, ma potenzialmente - se la legge non fosse cambiata - avrebbero potuto diventare decine di milioni, superiori anche nel numero ai 55 milioni di residenti in Italia con diritto di voto. Ad esempio, questi 6,5 milioni di (potenziali) elettori oggi contribuiscono a innalzare il quorum necessario per la validità dei referendum.

Questa nuova legge, quindi, sembra essere un primo passo nella giusta direzione, per far coincidere pragmaticamente cittadini de jure e cittadini de facto. Sarebbero tuttavia necessari altri passi per superare normative sulla cittadinanza, rese anacronistiche dalla storia effettiva dei movimenti migratori dell’Italia contemporanea. In primo luogo, si potrebbero allargare le maglie della nuova legge, creando corsie privilegiate per l’ottenimento della cittadinanza da parte di discendenti italiani oltre la seconda generazione, perché vi sono casi di persone che - effettivamente - hanno mantenuto un forte legame con l’Italia. Ad esempio, per i discendenti degli italiani si potrebbe prevedere l’acquisizione della cittadinanza dopo un periodo contenuto (2-3 anni) di residenza continuativa, di studio e di lavoro nel nostro paese.

In secondo luogo, andrebbe affrontata seriamente la questione della cittadinanza per i nuovi italiani. Gli attuali 4,5 milioni di stranieri oggi residenti in Italia, per chiedere di diventare cittadini debbono risiedere continuativamente per dieci anni nel nostro Paese (più una media di tre anni di iter burocratico…), oltre a dover - giustamente - dimostrare di avere un alloggio, un lavoro e di non aver commesso reati. Particolarmente critica è la situazione dei minori stranieri nati in Italia o qui giunti in tenera età, che si sentono italiani, ma quando entrano nell’adolescenza “scoprono” di non esserlo, e debbono subire anche restrizioni pratiche, ad esempio non essendo liberi di circolare nell’Unione Europea. Da un punto di vista della democrazia, questi 4,5 milioni di cittadini vivono in un paradosso: contribuiscono a determinare alcune cifre elettorali, calcolate sui residenti, come il numero di eletti nelle assemblee amministrative e legislative (Consigli Comunali, Parlamento…), ma non possono eleggere i loro rappresentanti, né essere eletti. Un po’ come accadeva, fino al 1946, per le donne.

L’abbassamento da dieci a cinque anni dei tempi di residenza necessari per poter far domanda di cittadinanza allineerebbe l’Italia ad altri paesi, come la Francia e la Germania. Il referendum dell’8 e 9 giugno è un’occasione per modernizzare anche questo aspetto della normativa. Il conteggio dei residenti Aire, assieme alla crescente disaffezione al voto, renderà complesso raggiungere il quorum, ma vale la pena provarci.

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