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giu 02

Spari, morti e versioni contrastanti: l’altra guerra è sugli aiuti umanitari

Nello Scavo, inviato a Gerusalemme - da www.avvenire.ikt -  lunedì 2 giugno 2025

Il caso dell’attacco alla popolazione accorsa in massa in uno dei punti di distribuzione alimentare è stato rilanciato dai giornalisti palestinesi e smentito dall’esercito israeliano. Ecco cosa si sa

Quando nel vano refrigerato dell’ospedale Nasser di sacche non ce n’erano quasi più, non è rimasta che una sola cosa da fare: «Il personale medico ha donato sangue poiché le banche del sangue sono quasi vuote». Il racconto degli operatori di “Medici senza frontiere” (Msf) restituisce la portata della carneficina di domenica, con almeno 31 morti e 175 feriti, tutti civili disarmati, falciati ad altezza d’uomo da raffiche di vario calibro. «I feriti hanno raccontato di essere stati colpiti da più parti, inclusi droni, elicotteri e carri armati», riporta una nota di Msf.
Come siano andate esattamente le cose è difficile da ricostruire. Ai giornalisti internazionali continua a non essere permesso l’ingresso nella Striscia, neanche in aree circoscritte, e ogni cronaca risente di un limite che dopo oltre 600 giorni di guerra somiglia sempre di più a un’arma non convenzionale. Le versioni infatti si scontrano, e le fonti di prova a nostra disposizione non sono equiparabili a quelle di una testimonianza diretta, corroborata dai riscontri tipici dei pool di cronisti dislocati nelle aree di crisi, che spesso cooperano tra loro per mettere insieme i tasselli raccolti. E anche quando le prove ci sono, queste arrivano spesso dai giornalisti palestinesi (oltre 200 quelli uccisi fino ad ora), liquidate da Tel Aviv come frutto di manipolazione che ha un solo scopo: screditare le forze di occupazione. Perciò ci vorranno giorni per accertare i fatti, potenzialmente crimini di guerra perseguibili dalla Corte penale internazionale. A cominciare da quello che potranno dire il tipo di proiettili sparati, l’esatta provenienza di ogni singolo morto o ferito, le immagini registrate dai telefonini, le testimonianze dei soccorritori. Ad oggi, mentre scriviamo nella mattina di lunedì 2 giugno, conta soprattutto ciò che non si conosce e ciò che viene omesso.
Che si sia trattato di qualcosa di più che un singolo episodio, lo conferma ad “Avvenire” il portavoce della Federazione internazionale della Croce Rossa, che da Ginevra ha raccolto i report degli operatori presenti nella Striscia. «C’è stato un incidente nelle aree di Rafah e Khan Younis, vicino al sito di distribuzione degli aiuti». Solo la Mezzaluna rossa ha trasportato «23 morti e 23 feriti, provenienti dalle due località prese di mira a Khan Younis e Rafah. C’è stato anche un altro incidente nella parte centrale della Striscia - spiega Della Longa - , sempre vicino a un punto di distribuzione degli aiuti, dove sono stati trasportati circa 14 feriti».
Secondo le testimonianze dei superstiti e dei feriti, una folla di migliaia di persone, in cammino da ore, prima dell’alba stava per raggiungere uno dei centri di distribuzione della “Gaza Humanitarian foundation”. Un drone con altoparlanti annunciava ai civili l’avvio delle operazioni alle 6 del mattino, non prima. Temendo di non riuscire a prendere nulla, c’è chi ha provato ad avvicinarsi per accaparrarsi i pacchi di aiuti. Inizialmente le fonti ufficiali israeliane hanno accusato Hamas. La stessa “Gaza Humanitarian foundation” (Ghf) ha assicurato che l’agguato contro i civili fosse stato eseguito dai fondamentalisti che hanno ordinato ai civili di non ritirare gli aiuti israeliani. Questa mattina sempre la Ghf ha però assicurato di non sapere cosa accada fuori dei propri centri di distribuzione. E non è l’unica contraddizione.
Bastano due numeri per capire il perché: 400 erano i punti di distribuzione degli aiuti coordinati dalla Nazioni Unite prima del blocco israeliano, 4 sono quelli della fondazione americana finanziata da Israele. Ufficialmente, la concentrazione degli aiuti in una sola organizzazione controllata da entità non neutrali (Usa e Israele), doveva servire a scongiurare i saccheggi che con 400 punti di distribuzione erano più difficili da contrastare. Nella realtà i saccheggi sono continuati, molti istigati di Hamas e altrettanti coordinati dall’organizzazione criminale guidata da Yasser Abu Shabab (che con Hamas ha parecchi conti aperti). Ad eccezione di quelli della Ghf, che pare non vengano avvicinati dalle bande armate di Shabab.
Sono operativi solo quattro hub di distribuzione: tre situati a Rafah, nel sud della Striscia, e uno nella zona centrale, vicino a Deir el-Balah. Tutti nei pressi di aree controllate da militari israeliani e sorvegliati da contractor armati. Nessuno dei punti di distribuzione si trova nel Nord. Le agenzie umanitarie e le organizzazioni internazionali hanno criticato aspramente il nuovo sistema, accusandolo di politicizzare gli aiuti e di violare i principi fondamentali dell’assistenza umanitaria. La concentrazione della distribuzione nel sud della Striscia è vista come un tentativo di forzare lo spostamento della popolazione dal nord verso l’area al confine con l’Egitto. Il Nord di Gaza rientrava nei piani di ricostruzione in stile grande resort turistico, mostrati attraverso i video promozionali della Casa Bianca.
Media internazionali e testimoni sul posto sostengono che a sparare siano stati i soldati israeliani. Israele, che con i suoi droni di sorveglianza controlla dall’alto la Striscia (non a caso nella proposta di tregua americana si offre un divieto di sorvolo di 10 ore al giorno durante il cessate il fuoco) a sua volta sostiene di non avere immagini ravvicinate del momento in cui è stato aperto il fuoco sulla folla. Un video diffuso attraverso fonti israeliane mostra alcuni uomini armati, con divise senza insegne, spingersi in mezzo a un gruppo di centinaia di civili disarmati e aprire il fuoco. Le immagini, secondo diverse testate internazionali e operatori umanitari sul posto, riguardano però un luogo e una datazione differente. Inoltre, il numero di spari registrati non è compatibile con la quantità di morti (31) e feriti (175) registrati domenica.
Il maggior numero di colpi è stato esploso contro la folla posizionata in una rotatoria a circa un chilometro dal sito di distribuzione di Rafah, in un’area controllata dalle forze israeliane, hanno riferito i testimoni. Un luogo differente da quello del video con uomini armati che sparano. «Ci sono stati molti martiri, comprese le donne«», ha detto all’Associated Press (Ap) Ibrahim Abu Saoud, un palestinese che dice di avere visto le forze israeliane aprire il fuoco. «Martiri» è la definizione comunemente adottata nel modo arabo per le vittime degli scontri armati. «Eravamo a circa 300 metri di distanza dai militari», ha detto il 40enne residente della zona. Un altro testimone, Mohammed Abu Teaima, 33 anni, sempre all’Associated Press ha dichiarato di avere visto le forze israeliane aprire il fuoco e uccidere suo cugino e un’altra donna mentre si dirigevano verso il centro di distribuzione.
Secondo il “Time of Israel” le forze di difesa di Tel Aviv non hanno «negato esplicitamente che ci siano stati spari, ma hanno detto di non essere a conoscenza di alcun ferito “all’interno” del sito degli aiuti». Qualche ora dopo le prime dichiarazioni, riporta sempre la testata israeliana, l’esercito ha definito «false» le accuse, e ribadito di non aver aperto il fuoco contro i palestinesi nel luogo di distribuzione degli aiuti o nelle sue vicinanze. Tuttavia «un funzionario militare israeliano - spiega ancora il “Time of Israel” - ha riconosciuto che le truppe hanno sparato colpi di avvertimento durante la notte a circa 1 km di distanza dal sito degli aiuti, ore prima che la struttura aprisse per distribuire gli aiuti ai palestinesi». La distanza indicata - 1 km - è identica a quella che separa la rotonda in cui i superstiti hanno indicato l’inizio della sparatoria, ma non è ancora chiaro se si tratti di luoghi sovrapponibili.
Nel corso della giornata sono attesi nuovi riscontri. Questa mattina alle 6 in punto la Gaza Humanitarian foundation ha diffuso un nuovo comunicato a 24 ore dai fatti. «Ribadiamo che non ci sono stati feriti, morti o incidenti durante le nostre operazioni di ieri. Punto. Non abbiamo ancora visto alcuna prova concreta che ieri ci sia stato un attacco all’interno o nelle vicinanze della nostra struttura», si legge nella nota che non risparmia rimproveri alla stampa internazionale: «Un reportage basato su prove dovrebbe essere almeno il requisito minimo per le testate giornalistiche». Un’accusa che tocca esattamente il punto chiave: la deliberata scelta di tenere la stampa estera dietro al muro di recinzione della Striscia di Gaza. E in effetti non risulta che la stessa “Ghf” abbia chiesto alle autorità israeliane di facilitare l’accesso della stampa internazionale a Gaza. La stessa fondazione non ha mai risposto alle richieste, compresa quella di “Avvenire”, di potere assistere dal vivo alla distribuzione degli aiuti.
Il comunicato della “Ghf” tuttavia si conclude con un’affermazione che circoscrive i margini della smentita e mette le mani avanti rispetto a possibili e imminenti sviluppi. «Non controlliamo l’area al di fuori dei nostri siti di distribuzione e delle vicinanze e non siamo a conoscenza delle attività dell’Idf (le forze armate israeliane, ndr) al di fuori del nostro perimetro, che è ancora una zona di guerra attiva». Dunque, l’unica certezza è che la sparatoria c’è stata, i morti e i feriti anche, e la “Gaza humanitarian foundation” esclude che sia avvenuta all’interno della propria area. Ma non nega né esclude ciò che è avvenuto al di fuori, né di chi siano effettivamente le responsabilità.

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