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20120827-liricada www.avvenire.it del 27 agosto 2012

LO STATO DELL’ARTE/4

Si chiude il nostro viaggio d’agosto per capire come sta lo spettacolo dal vivo in Italia ai tempi della crisi. Quarta e ultima puntata dedicata alla lirica. Ci aiuta a leggere questo mondo complesso Rosanna Purchia, sovrintendente del Teatro di San Carlo di Napoli, ruolo al quale è approdata dopo oltre trent’anni al Piccolo di Milano.

Un teatro, quello partenopeo, che di recente è stato sottoposto a un completo restauro (lavori suddivisi in vari periodi per non costringere il pubblico a rimanere senza un palcoscenico lirico troppo a lungo). In tre anni, spiega la sovrintendente che ha preso il timone del San Carlo dopo un periodo di commissariamento, è stata triplicata la produttività e si è passati da 2 milioni e mezzo di euro di ricavi al botteghino agli attuali 5 milioni. Il San Carlo ha scommesso sul territorio e su un possibile riscatto della città attraverso il lavoro: la fondazione ha aperto laboratori scenotecnici nella zona di Ponticelli, offrendo impiego ai giovani. Ogni anno, poi, l’impegno verso le nuove generazioni di spettatori consente di portare a teatro oltre 50 mila ragazzi attraverso le proposte della stagione Educational. Da quest’anno il San Carlo ha un nuovo direttore musicale: è Nicola Luisotti, di Bargheccia in Garfagnana, classe 1961, che si divide tra Napoli e l’Opera di San Francisco.

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Rosanna Purchia, come sta la lirica in Italia in tempi di crisi?
Benissimo, perché il teatro e la musica non muoiono mai. E perché le potenzialità sono moltissime. Detto questo non posso non prendere atto che la gestione del settore è spesso difficile perché sopravvivono - e sono difficili da estirpare - modelli lavorativi che negli anni si sono dimostrati inefficaci: generazioni di dipendenti delle fondazioni liriche hanno assimilato un’idea di teatro come ente pubblico con i bilanci in negativo ripianati dallo Stato. In un passato in cui tutto era tollerato siamo stati abituati ad avere sempre un paracadute che, però, oggi non c’è più. In un momento di crisi generale noi amministratori di denaro pubblico dobbiamo essere oculati e gestire quel poco che abbiamo con saggezza, lavorando al meglio per convincere tutti che l’Italia non può fare a meno della musica in quanto patrimonio da tramandare, ma soprattutto perché in tempi di crisi la cultura è un’ancora di salvezza.
Eppure molti vedono nelle fondazioni liriche pozzi senza fondo.
Ma non lo sono affatto: conti alla mano noi sovrintendenti siamo pronti a dimostrare il contrario. Il 90% delle risorse lo investiamo in palcoscenico che vuol dire lavoro (orchestra, coro, tecnici…). E già questa è una buona ragione per non farci chiudere. Arrendersi alla crisi e abbassare il sipario vorrebbe dire mandare a casa centinaia di persone, ma l’uomo non è una macchina che da un momento all’altro si può dismettere.
Cosa occorre a livello legislativo perché le fondazioni non siano più percepite come un peso?
Occorre dare loro la possibilità di essere davvero fondazioni di diritto privato: oggi lo siamo solo sulla carta perché il recupero delle risorse private è al limite e l’unico nostro ossigeno è la buona volontà di chi ci sostiene senza pretendere nulla in cambio. Occorre una defiscalizzazione dei fondi privati donati alla cultura: penso sarebbero molti quelli disposti a offrire consistenti cifre sapendo che queste sono interamente deducibili dalle tasse. È necessario poi avviare un tavolo governativo con le banche e con l’Enpals (oggi Inps) per rinegoziare i debiti che tutte le fondazioni hanno ereditato e che, seppur a fatica, cercano di onorare. Siamo anche in attesa dei regolamenti per avere un sereno confronto con le forze sindacali che, vedendo nei sovrintendenti i “padroni”, non comprendono che il bene della fondazione che noi perseguiamo coincide con il bene dei lavoratori.
Sulla spartizione dei contributi le altre categorie dello spettacolo accusano le fondazioni liriche di far man bassa dei fondi accaparrandosi ben il 47% del Fus.
È una questione storica che ha le sue ragioni. Le fondazioni liriche non possono essere messe nel calderone delle altre forme d’arte perché in un mondo dove la regola è quella del precariato - le compagnie scritturano in base alle tournée con contratti stagionali - noi abbiamo 10 mila artisti a tempo indeterminato (coristi, orchestrali, ballerini…) che richiedono grandi risorse. Per questo occorre ripensare la distribuzione dei fondi tenendo fermo il fatto che i contributi pubblici non devono mai essere minori di quelli privati perché lo Stato ha il dovere di sostenere l’arte.
Per risollevarsi dalla crisi, oltre a quelle economiche, quali risorse mettere in campo?
Dobbiamo puntare su quello che non noi, ma altri prima di noi, hanno costruito: il grande patrimonio culturale dell’Italia, il turismo, l’artigianato. Non siamo una civiltà industriale, lo dimostra la storia con la recente questione dell’Ilva o con il tramonto delle grandi fabbriche che avevano colonizzato le città, dalla Fiat a Torino alla Falk a Milano. Il sistema industriale è fallito, la cultura non fallirà mai. Occorre un investimento enorme, ma soprattutto un coordinamento perché alcune realtà sanno valorizzare questo patrimonio mentre altre hanno bisogno di essere sostenute e guidate. Come nel dopoguerra ci fu un piano industriale oggi occorre un grande piano culturale.
La lirica sembra qualcosa per pochi appassionati/ricchi, come garantirle un futuro?
Lavorando su quello che in questi anni è mancato, un vero ricambio di pubblico. Il problema del pubblico richiede tempi lunghi, pazienza da formichine, cose che fanno a pugni con i tempi del “tutto e subito” della nostra società. Nel pubblico occorre un ricambio generazionale, ma anche un ricambio sociale perché la lirica per troppo tempo è stata considerata qualcosa per pochi: anche il rito, la necessità di un certo tipo di vestito da indossare, contribuiscono a tenere lontano certe fasce di pubblico. E dobbiamo puntare a far sì che la musica torni alle sue radici popolari: il web marketing va bene e va incrementato, ma investire in risorse umane è la strada che salverà la cultura dalla crisi.

Pierachille Dolfini

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