Minacce, ricatti, contractor: perché a Gaza anche il cibo è in ostaggio
Lucia Capuzzi - da www.avvenire.it - domenica 27 luglio 2025
Il sistema dell’assistenza umanitaria è cambiato nei mesi di guerra, con accuse reciproche tra Netanyahu e Hamas. Ecco come funzionano gli aiuti alla popolazione, diventati ormai un dramma quotidiano
Lo spettro della fame ha aleggiato su Gaza fin dall’indomani dell’offensiva israeliana. Il governo di Benjamin Netanyahu ha più volte evocato la minaccia dell’assedio come arma di guerra. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ne ha fatto un leitmotiv: «Non un solo chicco di grano per la Striscia», non si stanca di ripetere. Già ad aprile 2024, l’ex generale Giora Eiland aveva teorizzato un piano di blocco totale per “svuotare” dai civili il nord dell’enclave. Nel frattempo, tra il 7 ottobre 2023 e il 20 luglio scorso, in media, secondo le cifre del ministero della Salute, controllato da Hamas, un palestinese ogni due settimane si è spento per malnutrizione grave, per un totale di 68 vittime. Solo nell’ultima settimana, però, il “fantasma” è diventata una tragedia tangibile, scolpita nei corpi scarnificati di bimbi e adulti, nei loro sguardi spenti, nel rantolo di aiuto rilanciato da oltre un centinaio di organizzazioni umanitarie. Il ritmo dei decessi per inedia ha subito un’accelerazione inedita, con dieci morti quotidiane. Cifre impossibili da verificare poiché Gaza è blindata ai giornalisti internazionali per decisione di Tel Aviv.
Al netto di eventuali “ritocchi” da parte delle autorità gazawi, legate al gruppo armato, l’emergenza alimentare è reale. Lo confermano le Nazioni Unite e le Ong indipendenti più accreditate. Lo stesso governo israeliano, per bocca del portavoce David Mencer, non nega il fenomeno bensì le proprie responsabilità: «C’è una crisi artificiale, progettata da Hamas». Una versione aggiornata del ritornello ribadito da Netanyahu da quasi un anno quando, il 27 settembre scorso, all’Assemblea Onu, aveva sostenuto: «Hamas vende il cibo rubato a prezzi esorbitanti. È così che si mantiene al potere. Beh, tutto questo deve finire. Stiamo lavorando affinché accada». L’esito di questo “lavoro” ha iniziato a manifestarsi il 2 marzo scorso, con la chiusura dei valichi nell’ultima fase del cessate il fuoco. Sono rimasti chiusi per i successivi 78 giorni, causando l’esaurimento delle scorte e il collasso della già fragile economia.
Tempo utilizzato per ribaltare il sistema di assistenza umanitaria, gestito fino ad allora in gran parte dalle Nazioni Unite «colpevoli», secondo Netanyahu, di non riuscire a impedire il «saccheggio sistematico» da parte del gruppo armato. Una razzia di cui, però, non ci sono prove certe. Anzi, in base a un rapporto interno di UsAid e da un’inchiesta del New York Times, la profonda conoscenza del terreno e dei beneficiari dell’Onu avrebbe impedito l’appropriazione da parte di Hamas. Il governo di Tel Aviv ha comunque deciso di appaltare il meccanismo - dal 26 maggio - alla Gaza humanitarian foundation (Ghf). Creata da Usa e Israele, la fondazione opera grazie alle prestazioni della Safe reach solutions, guidata dall’ex 007 della Cia Phill Reilly, e dei suoi contractor armati che presidiano i quattro siti di distribuzione concentrati nel centro e nel sud della Striscia. Contrariamente a quanto Netanyahu avrebbe voluto, il passaggio di consegne non è stato totale, per insistenza dei vertici dell’esercito, dubbiosi riguardo alla militarizzazione degli aiuti. Il 19 maggio, Tel Aviv ha autorizzato le Nazioni Unite, in particolare il Programma alimentare mondiale (Pam-Wfp), a «integrare», in modo parallelo e indipendente, il sistema Ghf. Dei 71 convogli quotidiani entrati a Gaza da Kerem Shalom e Zikim negli ultimi due mesi, secondo l’ente israeliano incaricato dell’amministrazione di Gaza e Cisgiordania (Cogat), 26 - circa un terzo - sono dell’Onu (22 dei quali del Pam ) a cui si aggiunge una quota non ampia di alcune Ong. Ce ne vorrebbero quasi il quintuplo per coprire le necessità di base di 2,1 milioni di abitanti della Striscia, sostiene ilPam. Oltrepassare il confine, poi, non vuol dire raggiungere realmente la popolazione affamata. I soccorsi vengono “parcheggiati”, in attesa che le organizzazioni umanitarie ricevano l’autorizzazione di andarli a prendere per distribuirli. È questo il punto dolente. Le autorità di Tel Aviv erogano i permessi con il contagocce: nell’ultima settimana, la metà delle 138 richieste del Pam è stata approvata. Ieri, 300 convogli erano in attesa, a rischio deterioramento. Lo stesso Cogat ha ammesso di avere dovuto distruggere negli ultimi mesi centinaia di tonnellate di alimenti e farmaci - l’equivalente di quanto contenuto in un centinaio di convogli - perché scaduti. Altre fonti parlano di una quantità dieci volte superiore. Tra il carico e il via libera alla partenza, poi, passano in media altre 46 ore. Nel frattempo, folle di disperati assaltano i camion. Anche quando non accade, occorrono ulteriori 12 ore per raggiungere i punti di distribuzione sulle complicate rotte decise dall’esercito per «questioni di sicurezza».
Problemi inesistenti per i circa 36 camion quotidiani - calcolo fatto sottraendo dai dati Cogat gli altri convogli - di Ghf. La fondazione sostiene di avere distribuito finora 94 milioni di pasti. Tanti in valore assoluto, pochi per 2,1 milioni di abitanti della Striscia. Per garantire loro tre pasti al giorno, ce ne vorrebbe il quadruplo. Ogni pacco, poi, come si evince dalle foto diffuse dallo stesso organismo, contiene alimenti come farina, riso, ceci che i gazawi, senza gas, non possono cucinare. Solo i più forti, poi, riescono ad attraversare le zone di combattimento per raggiungere i centri e restare in guardinga attesa dei 15 minuti di apertura. Senza oltretutto preavviso, né possibilità di registrarsi. Questa - dicono le organizzazioni umanitarie - è la ragione delle continue stragi del pane. Ai morti nelle file, ora si sommano, con sempre maggiore frequenza, le vittime di inedia. E la concomitanza dei due fenomeni non sembra casuale.
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