L’appello Rapporto
set 21

Per un futuro di pace: torniamo a rendere possibile il dialogo

Bruno Forte domenica 21 settembre 2025 - da www.avvenikre.it

«Dalle crisi non si uscirà se non insieme: dialogare al fine di giungere a patti di pace giusti. Tutto questo non è facile, perché può farlo solo chi crede veramente in un interesse superiore»

Il conflitto al cuore dell’Europa, generato dall’aggressione della Russia di Putin all’Ucraina, e quello in Terra Santa, avviato dalla strage terroristica compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 al Nova festival, cui partecipavano circa 3mila giovani israeliani, di cui molti sono stati uccisi ed altri rapiti e portati come ostaggi nella Striscia di Gaza, con la risposta voluta dal premier Netanyahu, che ha finora portato alla morte di quasi sessantamila persone e alla distruzione sistematica di intere aree abitate, stanno coinvolgendo sempre più l’intero “villaggio globale”, ridisegnando schieramenti e provocando l’insorgere di un nuovo antisemitismo, diffuso e capillare. Tutto questo mostra quanto ci sia bisogno oggi di dialogo, perché dalle crisi non si uscirà se non insieme: dialogare al fine di giungere a patti di pace giusti, però, non è facile, perché può farlo solo chi crede veramente in un interesse superiore alle parti, da amare e servire più del proprio calcolo. Riflettere sulle condizioni che rendano possibile e autentico il dialogo non è allora un esercizio astratto, risulta anzi oggi tanto più importante, quanto più è urgente. Il dialogo comporta sempre una sorta di uscita da sé, dalle ristrettezze del proprio punto di vista, per arrivare alla condivisione e all’incontro con l’altro: dove non ci sia ascolto reciproco è dubbio che possa esserci attenzione al bene di tutti e al superamento reale dei conflitti. Nulla si oppone di più alla natura del dialogo che la strategia o il tatticismo: il dialogo ha la dignità del fine e non del mezzo, esige la gratuità dell’intenzione e si propone come una possibilità feconda d’incontro, che nasce dalla volontà di servire il bene di tutti.

Alla luce della mia ormai pluriennale esperienza di dialogo ecumenico e interreligioso, in particolare quale membro del Dicastero finalizzato a promuovere l’Unità dei Cristiani e della Commissione mista fra la Chiesa cattolica e il Gran Rabbinato d’Israele, ho potuto maturare alcune convinzioni che espongo più come un auspicio, che come una descrizione di quanto sta avvenendo. In primo luogo, il dialogo non nasce e non si sviluppa lì dove la dignità e la consistenza dell’altro non siano rispettati: il dialogo vive della “reciprocità delle coscienze” (Maurice Nédoncelle), dello scambio fecondo in cui il dare e il ricevere sono misurati dalla gratuità e dall’accoglienza di ciascuno degli interlocutori. Il riconoscimento dell’altro nella sua dignità e nei suoi diritti è essenziale al dialogo: e questo vale nella relazione interpersonale, come in quella fra gruppi (si pensi, ad esempio, alla presenza degli immigrati fra noi), come nel rapporto fra popoli e nazioni. Dove vi fossero strumentalizzazioni o chiusure settarie il dialogo verrebbe a mancare: l’”incontro nella parola”, che è il dialogo nel suo significato etimologico (”dia-lógou”, “mediante il logos”, “attraverso la parola”), proietta gli interlocutori fuori del cerchio dei due, verso il vasto mondo della solidarietà e della giustizia per tutti.

È merito di alcuni pensatori ebrei del nostro tempo aver contribuito a una rinnovata comprensione dell’essere umano a partire dalla sua costitutiva predisposizione al dialogo: la linfa viva dell’albero d’Israele è venuta a scorrere nella riflessione contemporanea sull’uomo aiutandola a superare le secche tanto della comprensione classica, che fa dell’essere umano un caso dell’universale, assorbito nell’ordinata armonia del cosmo, quanto della concezione dell’ideologia moderna, che - specialmente nella visione illuministica - risolve l’uomo nel trionfo assoluto della ragione, svuotato del duro ceppo del mondo reale e delle concrete relazioni con gli altri. I pensatori ebrei, che hanno fatto del dialogo un tema centrale della loro riflessione, sono consapevoli della portata dirompente del loro pensiero nei confronti delle concezioni dominanti in Occidente, tanto dell’ideologie, quanto del pensiero esistenziale. Così Martin Buber nel proporre il suo principio dialogico (Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo 2014) non vede possibile alcuna comprensione o autentica realizzazione della persona umana dove non sia recuperata la pienezza della relazione con gli altri, dove, cioè, non trionfi l’orizzonte del dialogo. Nello scritto-manifesto Io e Tu (Ich und Du, 1923), primo dei saggi raccolti ne Il principio dialogico, Martin Buber sostiene che soltanto nella relazione interpersonale la prigionia dell’io è infranta e si coglie la realtà non come dominio, ma come incontro: all’inizio c’è la relazione, che esprime la struttura originaria dell’essere, la profondità ontologica per la quale l’uomo non è solitudine, ma apertura all’altro, e viene a realizzare sé stesso nel riconoscimento e nell’accoglienza degli altri. L’altro, però, può incombere come minaccia o risplendere come interlocutore nel suo offrirsi: perciò, la relazione più realizzante è quella che si stabilisce col Tu supremo, dove tutta la realtà è riscattata nell’incontro personale, vissuto nella sua dimensione più radicale e profonda. Per l’ebreo Buber l’esperienza dialogica si ritrova in forma suprema nell’alleanza con l’Eterno.

Nella visione cristiana, fondata sulla destinazione del Figlio eterno alla comunione con gli uomini e alla loro salvezza, è implicato il duplice movimento “dall’alto” e “dal basso”, in cui l’esperienza dialogica giunge al suo pieno compimento: il Dio, che ha messo le sue tende fra noi, incontra, sovverte e realizza al tempo stesso la domanda più vera del cuore umano. È qui che si coglie come dialogo e ricerca della verità non solo non si oppongano, ma siano in certo modo l’uno la via e l’autenticità dell’altro: ciò che è ricevuto nell’ascolto docile della verità, esige di essere gratuitamente offerto nel dialogo. L’onestà nell’obbedienza al giusto e al vero rende possibile e autentico il dialogo. Dialogo non è irenismo o cedimento alla dittatura del più forte: chi dialoga deve servire la verità e impegnarsi per la giusta causa, anche a costo di rischiare il fallimento della convergenza cercata. D’altra parte, dialogando così si sprigionano le energie nascoste del bene, e le potenzialità di ciascuno, lungi dal chiudersi in sé stesse, si proiettano fuori di sé, facendosi servizio e dono. Quest’apertura all’esterno non solo non mortifica la comunione di coloro che dialogano, ma la rende vera e liberante: da un dialogo non soggiogato a poteri forti si esce migliori, ciascuno più credibile, tutti più incisivi.

Sulla via di un simile dialogo stava procedendo il lavoro della commissione mista fra la Chiesa cattolica e il Gran Rabbinato d’Israele, come attesta ad esempio la dichiarazione Tra Gerusalemme e Roma (10 febbraio 2016), importante riflessione ortodossa ebraica sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo, elaborata nel contesto del cinquantesimo anniversario di Nostra Aetate, il testo del Concilio Vaticano II che ha cambiato in profondità l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso le altre religioni del mondo, in particolare verso l’ebraismo. Un tale cammino è per ora sospeso e riprenderlo sarà sfida tanto necessaria, quanto impegnativa. A chi crede nella rivelazione del Dio che ci ha amato per primo (cf. 1 Gv 4,19), poi, come avviene nella missione del Figlio e dello Spirito, va ricordato che è questa stessa fede a richiedere uno stile di vita plasmato dal dialogo con gli altri e impegnato nel servizio al prossimo, che anteponga il bene comune al proprio. Senza dialogo al suo interno la Chiesa non potrà proporsi come “icona della Trinità“, riflesso nel tempo del dialogo eterno dei Tre che sono Uno. Senza dialogo di sollecitudine verso la comunità degli uomini essa non annuncerà quanto le è stato rivelato e donato. Senza dialogo e spirito di servizio l’ispirazione cristiana in ogni campo, e specialmente in politica, non risulterà credibile.

A sessant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II e dalle intuizioni profetiche di Giovanni XXIII, che indirizzavano verso il riconoscimento di una nuova aurora per il popolo di Dio e la famiglia umana, impegnati in un reciproco dialogo (cf. il “tantum aurora est…” del discorso inaugurale dell’assise conciliare, l’11 ottobre 1962), e a più di mezzo secolo dal magistero di Paolo VI, che al tema del dialogo dedicò una preziosa sezione della sua Enciclica programmatica Ecclesiam Suam (6 agosto 1964: cf. nn. 60-123),queste verità semplici e grandi non solo non hanno perso, hanno anzi guadagnato in attualità e urgenza per tutti. Saranno i credenti pronti a riprendere la via del dialogo con coraggio e convinzione, nonostante ogni prova contraria? Alcuni segnali in tal senso ci vengono dai Patriarchi cristiani di Terra Santa e sono certo incoraggiati dalle parole dette prima da papa Francesco e ora da papa Leone XIV. La preghiera e l’impegno di ciascuno e di tutti, però, saranno più che mai urgenti e necessari perché «il dialogo torni ad essere centrale», come ha affermato papa Leone XIV nella sua prima intervista mondiale, uscita in spagnolo e imminente in molte altre lingue del mondo.

© Riproduzione riservata

Pagelines | Design