La speranza? E’ nella differenza tra benessere e felicità
di Luigi Maria Epicoco
Cristo non illude l’essere umano promettendogli il semplice funzionamento delle parti, ma offre uno scopo per cui la vita valga la pena di essere vissuta
26 ottobre 2025 - da www.avvenire.it
Ci sono delle domande che ci spaventano, perché ci costringono a fare i conti con noi stessi, con la nostra vita, con ciò che siamo, con il nostro vero destino. Queste domande, a ragione, si chiamano “grandi domande” perché riguardano la vita umana nella sua interezza. Tra queste grandi domande c’è sicuramente la domanda su “cosa ci è lecito sperare?”. Chi si fa questa domanda in realtà sposta lo sguardo dalla propria esperienza, dai propri piedi, e rivolge i propri occhi davanti a sé chiedendosi effettivamente dove sta andando, verso dove va la sua vita, qual è il motivo che lo spinge ad andare avanti. Un cristiano sa bene che certe domande non possono essere poste fuori da una relazione. Cioè, nessuna filosofia può davvero reggere l’impatto di una simile domanda senza gettarci nella vertigine dello spaesamento, della paura, dell’incertezza. Il cristianesimo non è una filosofia, ma è Qualcuno. Così come un bambino in braccio a sua madre può porsi il problema di ciò che può nascondersi nell’armadio della sua stanza, o sotto il buio del proprio letto, così un cristiano sentendosi forte di una relazione di bene può permettersi di guardare nel buio della morte, e interrogarsi sul senso vero del suo destino. In pratica, solo quando si è profondamente amati si può diventare radicali anche nei ragionamenti. La nostra cultura contemporanea è piena di ragionamenti e povera di amore. L’uomo contemporaneo è evoluto, tecnologico, munito di tutti i comfort, ma quasi sempre disperato riguardo la questione dell’amore, non perché non faccia esperienza di amore, ma perché tentando di marginalizzare la questione di Dio dalla sua vita, dalla società, dalla cultura, si condanna ad amori provvisori, amori che finiscono, amori che non sono abbastanza affidabili da reggere l’impatto della vita. L’illusione di sbarazzarci di Dio per essere più liberi in realtà ha solo reso evidente la tragedia della disperazione. Nessun uomo dotato di ragione sa che può vivere una vita pienamente umana fuori da un’esperienza di bene. Non basta la vita biologica per dire di essere umanamente vivi. Solo quando ci sentiamo amati e amiamo, compiamo davvero il nostro vero destino, la nostra più profonda umanità. Questa idea di fondo prescinde dall’esperienza stessa del dono della fede. È la struttura antropologica di ogni uomo e di ogni donna.
A partire da questa premessa stiamo assistendo a un grande fraintendimento che può condizionare non soltanto le nostre riflessioni, ma anche quelle scelte etiche, giuridiche, legislative che non tengono conto di questa peculiare specificazione. Attorno a che cosa si costruisce attualmente la nostra società e generalmente la vita umana? Per semplificare al massimo la questione dovremmo dire che ciò che fa da fulcro alla società e alla vita umana contemporanea è la ricerca del benessere. Ma il benessere e la felicità sono la stessa cosa? In realtà no, eppure la nostra società usa in maniera indiscriminata questi due termini confondendoli e tirando delle conseguenze che in realtà lasciano fuori la questione più importante del nostro essere umani. Se dovessimo usare un’immagine particolarmente significativa rispetto alla differenza tra il benessere e la felicità, potremmo dire che se la vita fosse come un’autovettura allora il benessere coinciderebbe con il lavoro che un meccanico fa affinché ogni parte di questa macchina funzioni, sia equilibrata, risulti performante. Il motore, le ruote, la carrozzeria, l’elettronica, i sedili, i sensori, insomma ogni singola parte può essere curata affinché funzioni correttamente. Ma finendo questo lavoro di messa a punto delle diverse parti, nessun meccanico potrebbe dirci qualcosa riguardo al viaggio che dobbiamo fare. Il benessere riguarda il funzionamento delle diverse cose della nostra vita, ma la felicità riguarda il viaggio, riguarda cioè il motivo per cui la macchina esiste, e per cui vale la pena usarla. Nessuna ruota, nessun sensore, nessun optional può mai sostituirsi a questa domanda di senso che è contenuta nel motivo del viaggio. Vivere puntando al benessere, e vivere puntando la felicità non solo la stessa cosa. Eppure basta analizzare la propaganda pubblicitaria, la narrazione della vita, del corpo, della salute, della giovinezza, della vecchiaia, del tabù della morte per accorgerci che ogni singolo problema della nostra vita lo affrontiamo ormai solo nell’ottica del benessere, cioè nell’ottica del funzionamento e della performance. Abbiamo smesso di vivere vite che cercano la felicità, e ci siamo accontentati semplicemente di funzionare. Ma basta funzionare per essere felici? Evidentemente no, ed è questo mio parere il dramma della disperazione che molto spesso colpisce tutti indistintamente. Questo discorso diventa particolarmente vero e drammatico quando viene applicato al grande tema della sofferenza, della malattia, e della morte. Si può vivere una vita non facendo mai i conti con la nostra caducità, con la nostra debolezza, con la possibilità della malattia, e con l’inevitabile esperienza della morte? Che cos’è che ci salva in ciascuna di queste esperienze? Basta semplicemente tornare a funzionare, scampare un pericolo, guarire, allontanare la possibilità della morte? In realtà la vera speranza umana non risiede semplicemente nella sopravvivenza ma nella capacità che ciascun uomo e ciascuna donna hanno di interrogarsi sul senso, di trovare cioè un legame significativo che non faccia semplicemente funzionare le diverse parti, ma che dia loro uno scopo, un viaggio, un motivo, un collante che li tenga insieme. Ma se smettiamo di educare le nuove generazioni alla felicità per renderli semplicemente capaci di desiderare il benessere, continueremo a vivere in maniera conflittuale l’esperienza della nostra finitudine che periodicamente si affaccia dentro la vita ricordandoci che siamo semplicemente delle creature con un inizio e una fine.
Mi sembra di rintracciare nel messaggio di Gesù la potenza di una proposta che è tutta fondata sulla felicità. Cristo non illude l’uomo promettendogli di salvarlo dalla sua creaturalità. Egli non promette il benessere, cioè non punta il suo messaggio al semplice funzionamento delle parti, ma dà all’uomo uno scopo per cui la vita valga la pena. E anche quando le parti non funzioneranno, anche quando sperimenteremo la debolezza, il dolore, e persino la morte, questo senso non verrà meno anzi diventerà ciò che renderà paradossalmente tutto possibile, compresa la morte. Se noi dovessimo dare un nome a questo senso, dovremmo tornare alla nostra analisi iniziale, dicendo che in fondo ogni uomo e ogni donna scopre un senso solo quando scopre l’amore. Chi è amato può permettersi tutto di questa vita, gioia e dolore, salute e malattia. Chi è amato può permettersi anche di morire perché sa che la morte non può nulla davanti all’amore vero. Ecco allora alla fine ciò che dà speranza all’uomo. In questo senso, l’insegnamento più grande del Vangelo rimane anche il messaggio più universale rivolto a tutti, e non solo quindi ai credenti, poiché è rivolto a quella radicale struttura di cui tutti siamo fatti. Se la cultura è un alfabeto molto spesso differente che ci distingue, e certe volte rende impossibile un incontro immediato con l’altro, basta scendere a questa questione fondamentale dell’uomo per accorgerci di essere tutti sulla stessa barca. Allora, la vera posta in gioco si gioca tutta sulla felicità. Una società veramente umana è una società che ha la pretesa di voler custodire il desiderio di felicità di ognuno. Al contrario è la logica del consumismo, della macchina economica, che vuole abbassare tutto alla semplice ricerca del benessere. Infatti è l’infelicità il vero motore del consumismo. Eppure il vero affare è la gente felice, e non semplicemente la gente sana. Un giorno un bambino dopo aver ascoltato il racconto della resurrezione di Lazzaro mi disse: «Ma poi Lazzaro è morto di nuovo?». È questa la domanda che noi adulti molto spesso non ci facciamo più. Lazzaro di qualcosa sarà morto, ma la vera svolta della sua vita non è stata venir fuori da un sepolcro, ma aver incontrato un motivo per cui la vita è tornata ad essere viva, e per cui accettare un giorno di morire. La fede chiama per nome questo motivo, e sa bene che è Gesù. Se la fede dà un nome a questo motivo, qual è quindi il compito di un’istituzione laica? Non certo dare risposte poiché smetterebbe di essere laica, ma ha il sacrosanto dovere di porre bene la domanda, e di proteggerla in tutti modi. Possiamo dire di vivere in una cultura e in una società che protegge la nostra domanda di felicità? Sarebbe una bella speranza che tutto ciò accadesse.
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